Lavorare sulle emozioni è importante, ma i detrattori della terapia centrata sulla soluzione sostengono che questo tipo di approccio le ignori. La domanda che viene utilizzata per sostenere la loro tesi è “Quando ti senti felice cosa fai?”
Eppure basterebbero i risultati per confutare facilmente questa teoria: se il paziente sperimentasse veramente il terapeuta come qualcuno che ignora i suoi sentimenti, le probabilità che la terapia fallisca sarebbero altissime.
Invece, come più volte abbiamo potuto vedere nei diversi casi presi in esame (puoi trovarne uno qui), la terapia centrata sulla soluzione si basa sulle evidenze.
Lavorare sulle emozioni, le evidenze della terapia breve
Se volessimo esaminare la realtà oggettiva, noteremmo che il terapeuta non ignora i sentimenti del paziente, per esempio con osservazioni come “sembra che tu abbia avuto un momento difficile”, oppure chiedendo direttamente al paziente quali siano i propri sentimenti, come in questo caso: “Quando domani ti sveglierai sentendoti più felice, come sarà per te quella sensazione, dimmi di più”.
Nel loro articolo “Emotions in soution-focused therapy”, Miller e de Shazer si rifanno alla filosofia di Wittgenstein per spiegare l’importanza di questo discorso sull’azione.
Elaborano il concetto che le emozioni non possono essere trattate come aspetti separati dell’esperienza di una persona; farlo significherebbe reificare un’emozione come una cosa, un “motore” che la spinge a comportarsi in modi diversi.
I pazienti, per esempio, parleranno di come perdono il controllo della loro rabbia e i terapeuti li coinvolgeranno nella “gestione della rabbia”. Gli autori succitati, invece, ci esortano a vedere i sentimenti del paziente come “arrabbiato” o “depresso”.
Il pensiero del terapeuta è focalizzato su “in quale contesto sono arrabbiati/depressi e cosa farebbe loro capire che le cose sono migliorate in tali situazioni”.
Quindi, mentre un approccio incentrato sul problema si concentrerà probabilmente sulle emozioni che vengono presentate come problemi, come rabbia e depressione, il terapeuta centrato sulla soluzione riconoscerà come si sente la persona e cercherà di portare avanti una conversazione che susciti emozioni che siano di aiuto al paziente, come l’ottimismo e la fiducia in se stesso.
L’attenzione è sempre rivolta al suscitare emozioni perché, “per parafrasare Wittgenstein, per parlare di processi interiori, abbiamo bisogno di criteri esteriori che possano essere riferiti e condivisi con gli altri”.
La teoria di Eve Lipich
Contro ciò, Eve Lipich, un membro del team iniziale di Milwaukee (trovi ulteriori dettagli qui a riguardo) che ha dato vita alla Terapia Breve centrata sulla Soluzione, ha affermato, seguendo il lavoro del biologo Maturana, che “le emozioni sono la base della motivazione, e la motivazione, piuttosto che il pensiero razionale, determina le decisioni che prendiamo” e “le emozioni possono sopraffare il pensiero razionale così velocemente mentre il pensiero razionale non regola le emozioni così facilmente”.
Per lei e per i suoi colleghi c’è un luogo per affrontare le emozioni più consapevolmente che nella pratica della Terapia breve centrata sulla Soluzione tradizionale.
Lei sostiene che:
«Gli sviluppi neuroscientifici… suggeriscono che ci possono essere situazioni in cui i pazienti non sono in grado, involontariamente, di collaborare in modo produttivo».
Per esempio, potrebbero non essere in grado di accedere a certi ricordi che potrebbero facilitare le soluzioni, perché tali ricordi sono immagazzinati in una parte del cervello alla quale non si può accedere cognitivamente… è molto impegnativo esplorare la possibilità di migliorare il lavoro centrato sulle soluzioni, imparando nuovi modi per stabilire un contatto con i pazienti, come attraverso le emozioni e, in modi non verbali, anche attraverso il corpo.
Potrebbe significare, per esempio, chiedere a un paziente dove vive le sue emozioni nel suo corpo.
Lavorando con una paziente che vuole diminuire il controllo che ha su di lei a rabbia, il terapeuta potrebbe chiedere cosa prenderebbe il posto di tale rabbia.
Se la paziente dovesse rispondere “pace e calma”, il terapeuta potrebbe anche chiedere “dove nel tuo corpo sperimenterai la pace e la calma?”
Neuroscienze: come impara il nostro cervello
Un ulteriore suggerimento, che si basa su come il nostro cervello “impara”, è che “potrebbe essere utile per i terapeuti focalizzati sulla soluzione considerare di prescrivere la ripetizione di pensieri o comportamenti che rappresentano possibili passi verso la soluzione”.
Per quanto possano essere interessanti le teorie di Lipchik, rischiano di oltrepassare uno dei confini che definiscono la Terapia Breve centrata sulla Soluzione: il punto di vista del “non conoscere” del terapeuta.
L’applicazione di conoscenze “esperte”, non condivise dal paziente, cambia la natura dell’incontro terapeutico. Non necessariamente in meglio o in peggio, ma è differente e l’attenzione rivolta alle teorie neuroscientifiche avrà un impatto sull’attenzione posta alla scoperta del modo personale del paziente di sapere ciò che è meglio.
Tuttavia, le neuroscienze sono ancora agli albori ed è tropo presto per sapere quale sarà la loro influenza sulla Terapia Breve centrata sulla Soluzione e in definitiva i metodi della psicoterapia.
Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Esperto di Terapie Brevi,
Terapia a Seduta Singola
e Ipnosi
Bibliografia
Miller, G. and de Shazer, S. (2000) Emotions in solution-focused therapy: a re-examination. Family Process, 39:5 -23
Lipchik, E. (2005) An interview with Eve Lipchik: expanding solution-focused thinking. Journal of Systemic Therapies, 24(1): 67-74