Paziente mandato in terapia: quando non è lui a scegliere

Paziente mandato in terapia

Si tratta comunque di casi particolarmente complessi nei quali, di primo acchito, si può avere l’impressione di avere in studio un paziente non collaborante

L’idea di un paziente che “viene mandato” in terapia, solitamente, evoca alla mente l’immagine di un paziente involutivo, ovvero, di qualcuno che non voleva partecipare alla terapia e che, in qualche modo, è stato costretto a farlo “contro la sua volontà”. Il paziente mandato in terapia è un paziente che, per esempio, deve affrontare un percorso di riabilitazione perché o ha commesso qualche reato o perché giudicato inidoneo dai servizi sociali alla cura dei figli e via discorrendo.

Insomma, si tratta comunque di casi particolarmente complessi nei quali, di primo acchito, si può avere l’impressione di avere in studio un paziente non collaborante, dal momento che non ha scelto lui di intraprendere il percorso terapeutico.

Il paziente mandato in terapia non è necessariamente non collaborante

Tuttavia ci sono altri aspetti che vanno considerati, aspetti che meritano una riflessione. In fin dei conti, sebbene quella di recarsi dal terapeuta non è stata un’idea del paziente, questi, in qualche modo, ha accettato.

Il paziente, pur non avendo scelto di intraprendere un percorso terapeutico, ha deciso di prendervi parte e questa decisione, in qualche modo, è un primo passo.

Al terapeuta quindi il compito di scoprire quale sia la ragione che ha indotto il paziente a prendere parte agli incontri, dato che la Terapia Breve centrata sulla Soluzione presuppone che ogni paziente che accetta di parlare ha una buona ragione per farlo.

Delle volte la buona motivazione del paziente, però, non corrisponde, almeno all’inizio, a quelle di chi ha indotto il paziente a partecipare al percorso di terapia.

1° Caso

Vediamo un primo esempio nel quale il paziente e il terapeuta riescono a trovare subito un approccio utile incentrandosi sulle migliori speranze del paziente, puoi approfondire qui:

Terapeuta: Quali sono le tue migliori speranze dal nostro incontro?

Paziente: Non lo si davvero, il mio medico voleva che venissi.

Terapeuta: Come mai hai deciso di venire?

Paziente: Beh, lui pensava che questo sarebbe stato un bene per me.

Terapeuta: Fantastico, e se l’idea del medico dovesse rivelarsi giusta tu come te ne renderesti conto?

Paziente: Suppongo che gestirei meglio il mio dolore.

Terapeuta: Giusto, quindi se dovessi trovare dei modi per gestire meglio il tuo dolore, suppongo questo sarebbe un bene per te, non soltanto una cosa che vuole il medico?

Paziente: Certo che lo vorrei.

In questo primo caso, con poche domande, il terapeuta è riuscito a far iniziare al paziente un processo di descrizione di ciò che desidera. Ora, quello che rimane da fare al terapeuta, è continuare a restare sul concetto che il paziente ha “scelto di venire” anche se non è stata una sua idea.

2° Caso

In questo secondo caso, invece, il processo è simile, ma il percorso è più faticoso:

Paziente mandato in terapia

Beh, al colloquio mi hanno detto che non avrei avuto la possibilità di riavere i miei figli a meno che non fossi venuta qui

Terapeuta: Allora, quali sono le tue migliori speranze da questo incontro?

Paziente: In realtà nessuna. Il mio assistente sociale ha detto che dovevo farlo.

Terapeuta: Eppure sei venuto, come mai hai deciso di farlo?

Paziente: Beh, al colloquio mi hanno detto che non avrei avuto la possibilità di riavere i miei figli a meno che non fossi venuta qui.

Terapeuta: Giusto. Questo è qualcosa che vuoi fare, riavere i tuoi figli?

Paziente: Certo!

Terapeuta: Quindi, per riavere indietro i bambini ti basta venire qui o vogliono vedere anche dei cambiamenti?

Paziente: No, c’è un intero elenco di cose. Vogliono che smetta di bere, che parli degli abusi che ho subito da piccola, che gestisca meglio la mia rabbia, che sia più coerente con i bambini, che sia più affidabile e che migliori l’autostima.

Terapeuta: Okay, quindi dicono che se non modifichi questi aspetti non potrai riavere i bambini?

Paziente: Sì, anche se penso che potrei avere i bambini indietro comunque e che tutto andrebbe bene.

Terapeuta: Questo è però. Posso chiederti se ci credi? Loro intendono fare quello che dicono o lo dicono e basta?

Paziente: Il mio avvocato sostiene che lo intendono davvero e che devo venire qui se voglio avere qualche possibilità in tribunale.

Terapeuta: Quindi anche se non sei convinta che devi apportare queste modifiche, quali credi che siano i più piccoli segnali che l’assistente sociale avrebbe bisogno di vedere per fare in modo che ti ridiano i bambini indietro?

Paziente: Beh, suppongo il bere. Vedendomi arrivare alla casa famiglia in tempo, quando ho detto che lo avrei fatto, non puzzare di alcol.

Cosa fa percepire il cambiamento

Paziente mandato in terapia

Per il paziente è importante riavere i suoi figli evitandone l’affido e che i cambiamenti comportamentali sono solo un mezzo per poter raggiungere quello scopo

Ora il terapeuta ha un’immagine del cambiamento richiesto e basandosi su questa potrà chiedere: “Allora sei pronto a provarci, anche se non sei sicura che sia necessario, per riavere i tuoi figli indietro?”

Se il paziente risponde di sì, come è molto probabile, il lavoro può procedere. Ciò che il terapeuta deve sempre tenere a mente è che per il paziente è importante riavere i suoi figli evitandone l’affido e che i cambiamenti comportamentali sono solo un mezzo per poter raggiungere quello scopo.

 

 

 

 

 

Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Esperto di Terapie Brevi,
Terapia a Seduta Singola
e Ipnosi

 

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