Quando si parla del trattamento terapeutico di traumi e abusi sessuali, molto spesso, si pensa che questi richiedano una terapia intensiva e a lungo termine che consenta di rivivere tali accadimenti in modo da poterli affrontare.
In realtà, anche per questi casi, la Terapia Breve centrata sulla soluzione si è rivelata decisamente efficace. A sostegno di questa affermazione cito alcuni casi che sono stati trattati, appunto, con la Terapia Breve. (Dolan 1991, 2000; O’Hanlon e Bertolino 1998).
Il caso di Debora
Debora era stata maltrattata da un amico di famiglia e per molti anni, da sola, non era stata in grado di superare questo trauma. In particolare, c’era stato un momento in cui avrebbe voluto raccontare la sua esperienza a un terapeuta in modo da avere una visione professionale dell’accaduto. Prima di allora non ne aveva mai parlato con nessuno.
Un terapeuta che si concentra sulla soluzione non interpreterebbe questo tentativo come un focus sul problema. La paziente, parlando dell’accadimento come mai prima d’ora aveva fatto, stava già facendo qualcosa di diverso e cercava di dare un senso alla sua vita.
Se non avesse mai parlato dell’abuso per lei sarebbe stato impossibile avere una visione coerente. Ascoltare la sua storia attraverso le sue stesse orecchie (e attraverso quelle che immaginava fossero le orecchie del terapeuta) l’aveva portata a vedere che il suo modo di agire in quella circostanza non era un qualcosa di cui vergognarsi, bensì un modo eroico per proteggere i bambini che erano ancora più vulnerabili a tali abusi.
Il suo eroismo continuava. Aveva negato di uscire da sola, tuttavia ammetteva di recarsi ogni mattina al lavoro da sola.
Ogni mattina, purtroppo, compiva un lungo rituale di quaranta minuti prima di lasciare il suo appartamento gradualmente. Ogni mattina Debora si tormentava per la sua stupidità.
Quello che non riusciva a vedere era la sua quotidiana lotta per andare avanti di fronte alla paura reale, nonostante questa fosse indotta psicologicamente.
L’occasione in cui aveva raccontato tutto al terapeuta era stata la prima di cinque sedute nelle quali la donna aveva rivendicato la sua indipendenza e il suo futuro.
L’oggetto di sicurezza
In alcune circostanze il paziente esprime il desiderio di raccontare la storia dei suoi abusi. Il terapeuta, di conseguenza, potrebbe chiedergli come riuscirà a superare quella situazione.
Mettendo in pratica le teorie di Yvonne Dolan, è stato chiesto ad alcuni pazienti di portare con sé un “oggetto di sicurezza” (Dolan 1991) che avrebbero potuto tenere quando raccontare l’esperienza vissuta fosse diventato troppo sconvolgente.
Il terapeuta è conscio del fatto che parlare può portare il paziente a un tale stato di disagio al punto che è doveroso da parte sua prendersene cura anche una volta finita la seduta.
La lista del “prendersi cura di se stessi”
Dolan aveva chiesto ai suoi pazienti di scrivere una lista del “prendersi cura di se stessi”, ovvero, di tutte quelle cose che li avrebbero aiutati ad affrontare la loro condizione. Aveva poi chiesto loro di indicare il posto in cui sarebbe stato preferibile riporla, come per esempio nel cassetto dei coltelli nel caso di qualcuno intenzionato a farsi del male. La lista doveva quindi stare in un posto utile per la circostanza che si presentava.
La teoria di Allan Wade (1997)
Un metodo molto efficace per lavorare cono chi ha subito abusi e traumi è l’approccio che si basa sulla teoria di Allan Wade.
Se il paziente descrive un incidente in cui è stato aggredito o maltrattato, invece di invitarlo a elaborare i suoi sentimenti, gli si potrebbe domandare come ha risposto all’episodio di aggressione con i suoi pensieri, con i suoi sentimenti e le sue azioni, in modo da rilevare le risorse da cui il paziente ha attinto per sopravvivere. (Wade 1997).
Per esempio, nel caso di Debora che era stato citato prima, la donna era stata in grado di ricordare come, durante i suoi abusi, avesse trovato la forza pensando che stava tenendo al sicuro la sorella minore e la cugina.
Un’altra paziente, aveva descritto il terrore che provava nella sua camera da letto all’età di 8 anni quando sentiva suo padre salire le scale. Le era stato chiesto come aveva reagito a tale condizione e aveva risposto di aver chiuso la porta.
Ovviamente questo non era servito a evitare l’abuso, ma si era resa conto di come a suo modo aveva cercato di proteggersi.
Un’altra paziente ancora, Carla, era sotto sorveglianza per tentato suicidio in un reparto chiuso a chiave. Diceva di non nutrire speranze nella seduta di terapia, ma avendo accettato di sottoporvisi, il terapeuta supponeva che da qualche parte dovesse pur avere una buona ragione.
Carla sosteneva che solo rimuovendo il suo passato avrebbe potuto vivere il suo futuro, ma aveva accettato di rispondere ad alcune domande.
Il terapeuta le aveva chiesto: “Supponiamo che stanotte, mentre dormi, accada un miracolo: questo non cancella il passato, ma gli impedisce di creare problemi nel futuro. Qual è la prima cosa che noteresti domani che ti farebbe capire che hai ancora il tuo futuro?”
Nella mezz’ora successiva Carla aveva descritto il giorno seguente e poi aveva descritto la vita che avrebbe sperato dopo la dimissione dall’ospedale. In seguito aveva risposto a una domanda in scala (puoi approfondire qui) dove 10 stava per fare tutto ciò che aveva descritto nel suo “miracolo” e 0 per non fare nulla. Aveva risposto 7, sorprendendo se stessa e il terapeuta.
“Ma non è il vero me” aveva aggiunto. “Allora chi è?” Aveva chiesto il terapeuta. Anche se solo in una singola seduta, il recupero a lungo termine di Carla era iniziato quel giorno.
Una soluzione spontanea
Una caratteristica che accomuna le risposte dei pazienti in un approccio centrato sulla Soluzione di un trauma passato è che spesso, tali pazienti, iniziano a prendere spontaneamente i provvedimenti che sono descritti sui manuali
Tuttavia, i diversi manuali offrono diverse raccomandazioni per trattare tali problematiche e queste sono giuste per alcune persone, ma sbagliate per altre.
Per esempio, quando i pazienti riprendono in mano la loro vita, alcuni riferiscono di aver deciso di confidarsi con un amico, e di quanto questo sia stato utile, altri riferiscono di aver avuto problemi col loro molestatore o con un altro membro della famiglia.
Altri ancora potrebbero dire: “Ho passato la metà della mia vita a pensare al problema, ora ho deciso di voltare pagina”. Il messaggio è ovvio: quando aiutiamo i pazienti ad andare avanti con la loro vita, trovano spontaneamente il modo per farlo.
Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Esperto di Terapie Brevi,
Terapia a Seduta Singola
e Ipnosi
Bibliografia
Dolan, Y. (1991) resolving Sexual Abuse. New York: W. W. Norton
Dolan, Y. (2000) Beyond Survival. London: Brief Therapy Press
O’Hanlon, B. and Bertolino, B. (1998) Even from a Broken Web: Brief, Respectful Solution-Oriented Therapy for Sexual Abuse and Trauma. New York: Wiley
Wade, A. (1997) Small acts of living: everyday resistance to violence and other forms of oppression. Contemporary Family Therapy, 19:23-39